Arata e il suo tempo

LE OPERE

SEVERITÀ

Nel difficile percorso della pittura italiana del Ventennio, Francesco Arata procede guidato da una rettitudine di profondo rigore morale che gli consente di passare oltre l’imitazione di modelli artistici di varia origine: classicismo, nuovo romanticismo, post-cubismo, espressionismo, novecentismo, ecc.

L’arte italiana che dagli anni Venti arriva fino ai Cinquanta, ha prodotto alcuni artisti che sicuramente ne hanno pilotato il proseguo, imprimendone stile e poetica, ma alla base sono numerosi quanti in silenzio hanno permesso, con la devozione, lo studio e soprattutto l’adesione a queste poetiche, appunto, dell’arte stessa di prendere corpo, determinarsi nel tempo, sensibilizzare le successive generazioni a migliorarsi e prendere dalle loro esperienze quanto di buono si era espresso.

La verifica di queste personalità è attualmente in corso e non è difficile imbattersi in artisti di notevole spessore noti finora quasi esclusivamente nella propria regione, se non nella propria provincia: Arata è uno di questi.

Torniamo al suo credo pittorico e alle sue parole, tratte da un buon numero di lettere, che hanno quale argomento la pittura e la famiglia: mai una frivolezza, sempre il grande amore per la moglie e i figli, l’ossessiva volontà di far bene in pittura, trovare il soggetto giusto, far qualcosa di buono, fino alla pedanteria.

L’eccessiva apprensione per la pittura non gli giovarono sicuramente per essere giocoliere in arte come altri e rimescolare le carte a piacimento dell’onda corrente: non è certo con la rigorosità estrema che si raggiungono tangibili successi.

Arata cercava nella moralità dell’arte quella soddisfazione personale che gli altri non potevano capire, né intuire, quand’ancora il suo distacco dai compromessi necessari, o l’occhiolino alla politica del tempo, gli avrebbero aperto le porte a maggiori esiti.

Scrive alla moglie da Venezia nel 1939 “ho letto dell’inaugurazione della Mostra Sindacale di Cremona. Come vedi non fui invitato. M’hanno scartato! Miserabili!”.

Ancora alla moglie da Vilminore nel 1942 “sai che perché mi riesca un buon quadro me ne occorrono diversi di meno buoni, e poi l’assillo dello stile in Arte è una lotta che tu non puoi comprendere, che solo gli artisti sanno di questa infelicità quando non si può raggiungere quell’eccellenza che ti fa distinguere”.

Infine uno scritto del 1955, che completa la severità nella figura di Arata pittore, il suo amore per la natura, la voglia di dipingere: “una giornata di sole mi rincuora, più giornate di sole mi danno un tono alla vita che fa riprendere la volontà al lavoro e un certo benessere spirituale senza il quale ogni cosa ci rattrista o meglio immalinconisce”.

 

NOVECENTO

È assai difficile distinguere l’uomo Arata dall’artista, le due personalità si fondono in amore e devozione per i due obiettivi principali della sua vita.

Già allievo di Cesare Tallone e Cesare Fratino, insegnante di Ornato all’Accademia di Brera, acquafortista consacrato dalla critica, aiuto scenografo al Teatro alla Scala del “freddo ma perfetto Rota”, la duratura amicizia con l’architetto Giovanni Greppi, Arata accumula un bagaglio invidiabile di nozioni di prospettiva, disegno e uso del colore tanto che, alla fine della Grande Guerra, decide per la grande avventura che gli prenderà gran parte dell’esistenza.

Non si accorge delle avanguardie Futuriste e la sua inclinazione è prettamente naturalistica “acquarellista limpido e arioso … paesaggista delicatissimo” lo definisce il critico Raffaele Calzini nel 1916: trae ispirazione dall’insegnamento di Tallone, i cui paesaggi post-impressionisti hanno una essenzialità e modernità nuova.

A partire da questo geniale artista, Arata seppe costruire il proprio apparato artistico: perché se nell’Italia post bellica nacquero movimenti come Valori Plastici o istanze come “il ritorno all’ordine”, non si poté rinunciare a quanto il verismo Ottocentesco, spesso incantato, aveva tramandato.

Arata costruisce intorno alla chiara visione naturalistica talloniana la propria personalità artistica: una preparazione lenta e tecnicamente solida, basata sulla prospettiva e sul disegno.

Scrive nel 1923 un anonimo articolista in occasione di una mostra personale all’Istituto Carducci di Como: “chi viene a conoscere personalmente quest’uomo, istintivamente è attratto a paragonare l’opera e l’arte sua all’animo, al sentimento, al cuore di cui è dotato. Noi scopriamo in tutti i quadri di questo artista fermo e deciso, il pensiero di fare, non per fare, ma di migliorare”.

Pensiamo che in questi anni Arata, pronto e fiero della sua rappresentazione naturalistica nel solco del cosiddetto impressionismo lombardo, abbia sofferto non poco così vicino al nascente Novecento e forse non ha voluto, in un primo tempo, considerarne la svolta poetica predicata dal critico Margherita Sarfatti, così vicina al Regime.

Svolta di impronta sironiana che si può definire in “ristabilire i pesi, le masse, i volumi” e nella scelta di rappresentare oggetti: “l’anfora, la brocca, la ciotola, frutti sferici come mele e arance”.

Così Arata nella seconda metà degli anni Venti si convince ad arrischiare qualcosa, in figura, nel gusto classico dalle superfici levigate: sono di quegli anni alcune opere di figura e di natura morta improntate al Realismo Magico che è un denominatore comune per la poetica del Novecento.

L’Autoritratto del 1929, inquietante con lo sguardo indagatore, in una immobilità raggelante, o la madre del 1929 dove l’immagine supera il tempo: il realismo di Arata trascina con se qualche ombreggiatura gentile o alcune morbidezze del sentimento, ma nel complesso reagisce alla tradizione con impeto e lucidità.

Fino al 1930 i dipinti legati al Novecento si fanno incalzanti e rigorosi, come la moglie del 1929 o alcuni nudi di notevole efficacia plastica, dotati di rigore classicista e corredati di quegli elementi sobriamente compositivi: brocca, frutta, positure classiche delle modelle.

Quando il Novecento lascia spazio alla monumentalità arcaica di Mario Sironi e Arturo Martini, Arata ritorna con fierezza alla sua natura, quella che vede, quella tangibile delle sue peregrinazioni sulle spiagge liguri, sui monti bergamaschi, nelle pianure della sua Castelleone.

Mantiene di questa fase la sintesi del verbo pittorico e un maggior equilibrio delle masse, una maggiore vigorìa e una più spontanea freschezza, con frequenti inserti di elevazione spirituale in alcune nature morte costruite quasi solo con la luce, impalpabili ai limiti del metafisico.

 

EFFETTO TOSI

Dagli anni Trenta in avanti Arata ritrova in pittura il suo istinto, la libertà dell’esprimersi con la sensibilità del suo lirismo; sono finite per Arata le sperimentazioni e le ricerche sulla via di uno stile per lui forzato e subordinato alle costruzioni dello studio.

Arata è uomo che ama la natura, che ricerca l’incanto dei luoghi dove lo spirito si eleva in un canto accorato attorno ai suoi colori, nei monti solitari, sulle spiagge vergini (vuote dai turisti), nelle campagne soffici e rudi della sua terra padana.

È proprio Arturo Tosi il suo ideale – ricordiamoci che Tosi per un artista lombardo ha lo stesso significato di Cèzanne – figura limpida di artista che non ha ceduto ad alcuna lusinga di nuove avventure procedendo con incredibile dignità anche nel cuore di Novecento.

Gli stessi luoghi li accumunano, gli stessi scorci d’ispirazione: la Val Seriana, la Riviera Ligure, il Sebino; la carismatica figura di Tosi è quasi il toccasana per un uomo semplice, meticoloso, timido e sognante come Arata, e le direttive del maestro giungono a segno con tutta la loro profondità.

Il campo visivo si allarga, i colori si fanno più tersi, più marcati nei contorni, certe ricercatezze d’impasto spariscono, il paesaggio è puro e severo non più accattivante e sdolcinato, le mutazioni dell’atmosfera sono un mezzo per capirlo e interpretarlo, non per derivarne una situazione d’effetto.

Tutte queste determinazioni portano Arata ad essere un pittore moderno, ancor più di quando cerca le poetiche del Novecento, passando indelebile, appunto come Tosi, anche attraverso i modernismi del secondo dopoguerra.

La fedeltà e l’intelligenza pittorica di Arata vengono premiate in questi anni con l’accettazione delle sue opere alle più importanti manifestazioni: ben tre Biennali di Venezia e due Quadriennali di Roma.

Dopo i quarant’anni Arata è pittore formato, ha trovato il suo percorso ed il successo di pubblico non tarda a ripagarlo della sua dedizione, le sue opere iniziano ad entrare anche nelle collezioni pubbliche.

Arata è pittore italiano e per di più del suo tempo, di quella razza che ha con rettitudine proceduto secondo saggezza e con quella disciplina della mente che non ammette storture e perifrasi.

 

BAGUTTA E BURANO

L’altro fattore che aiuta Arata a mantenersi nell’equilibrio formale nel suo temperamento artistico è l’incontro con gli amici di Bagutta: questi uomini di cultura, della più ampia estrazione, si riuniscono in un cenacolo dall’apparenza goliardica, ma di notevole prestigio culturale.

Nato in una piccola osteria toscana di via Bagutta, vicino a San Babila – dove Riccardo Bacchelli, buongustaio della brigata, elogiò il vino e l’olio – il gruppo raccoglie un certo numero di amici, scrittori, pittori e scultori che operano a Milano.

Il più vivace degli animatori è Mario Vellani-Marchi, che Arata aveva conosciuto fin dai tempi della Scala e ovviamente è presto parte del manipolo onesto, laborioso, felice e battagliero che attorno ad un tavolo riesce a trovare il gusto dell’arte.

È facilmente intuibile il senso di Bagutta e di conseguenza trovare i motivi per i quali Arata è dei loro: motivi umani, senza dubbio, anche artistici, però, che assecondano il suo modo di fare pittura; un filo li unisce, non certo uno stile, ma sicuramente un sereno modo di procedere verso la natura, le cose della vita, il quotidiano che si può tradurre con l’agilità del proprio estro, al di fuori di ogni sollecitazione, generato dall’autenticità espressiva.

Arata cita spesso nelle sue lettere gli amici di Bagutta, coi quali trova la comunione d’agire, e con loro ha l’occasione di vagare maggiormente alla ricerca dei luoghi ideali da dipingere.

Era logica, anche per l’estrema similarità, l’invasione dei baguttiani nel regno dei buranelli, quelli della trattoria di Romano Barbaro: la laguna veneta ha troppo fascino per questi amanti della natura, con le stesse abitudini di buona tavola, di animate discussioni e la simpatia, l’onestà in pittura.

Dei cenacoli di Bagutta e Burano, Arata ama l’indipendenza nell’arte, apprezza l’amicizia di alcuni dei componenti, che amici lo saranno perennemente: Vellani-Marchi, Novello, Monti, Salietti, Guido Tallone, Dalla Zorza, Seibezzi, Bucci, Semeghini hanno saputo costruire quel tessuto di garanzie per la continuità di una morale pittorica nel nord Italia, senza dimenticarsi però di quanto De Pisis o Bucci avevano portato dalla Francia in essenzialità.

L’avventura baguttiana è comune ai suoi aderenti per temi, situazioni e osservazione dal vero con esposizione semplice, nitida, colori tersi a volte sorretti da nervosità, essenzialità nell’impianto evitando inutili preziosismi.

 

STRAPAESE

L’agire dei baguttiani, se vogliamo tradurre in poetica, si collega alla logica di Ardengo Soffici che in occasione della Quadriennale di Roma del 1931 (cui partecipa Arata), espone con agguerrita autorità i punti programmatici del recupero di una pittura tutta italiana:

  • religioso amore della realtà
  • rappresentarne gli aspetti eterni con grandiosità poetica
  • esprimerne l’interna commozione in forme comprensibili
  • arrivare all’eleganza per mezzo della naturalezza.

Senza dubbio Arata è stato affascinato da questa parola autorevole su quanto egli stesso sostiene in pittura, trovando quel sostegno morale e pianificatore ai suoi prossimi anni di lavoro.

Elda Fezzi, valoroso critico cremonese, si è interessata più volte di Arata e con molta saggezza ha cercato l’indagine sulla sua pittura, verificandone appunto questo lato di narrativa strapaesana.

Non una condizione provincialeggiante, ma il fatto di ripescare alcuni valori che in un preciso momento storico sembrano andati in disuso – tacciando chi li pratica di passatismo – è una prova ancor più profonda di quanti artisti, nell’Italia di allora, fronteggiavano il cosiddetto “modernismo” o addirittura l’arcaismo, cercando con non poca fatica di mantenersi su una barca instabile, che però ha salvato con onore la tradizione di una frangia vitale di veri professionisti che con l’arte volevano raccogliere i frutti della natura e dell’intima sensibilità.

Abbiamo qui cercato di ricreare l’ambiente e le motivazioni per i quali avviene la collocazione di Arata nella storia dell’arte italiana di questa gran parte del secolo, nel quale i motivi artistici sono stati arrembanti e vivi di costruttive battaglie.

Pensiamo che Arata abbia ben diritto ad un posto primario in questo vasto panorama per il quale molto ha dato in opere che reggono il tempo con onore, dignità e autorevolezza.

Fernando Rea