Bagutta e Burano

Bagutta – Burano: andata e ritorno

Via Bagutta è una piccola strada milanese nel cuore antico della città. Qui, prendendo il nome dalla via, si trovava la rinomata trattoria Bagutta, sede della giuria del celebre “Premio Bagutta”, creato nel 1926 da un gruppo di frequentatori del locale. Tra questi spiccavano scrittori ed intellettuali come Riccardo Bacchelli, Orio Vergani, Mario Vellani Marchi, Paolo Monelli, Giuseppe Novello, Antonio Baldini, Anselmo Bucci, Leo Longanesi, Valentino Bompiani, Cesare Zavattini, Dino Buzzati, Bernardino Palazzi, solo per citarne alcuni.
Si ritrovavano con grande assiduità nel locale, dedicando ad ospiti illustri serate particolari, aperte ad un pubblico più vasto.
Tali occasioni venivano sottolineate e consegnate alla cronaca da un un insolita pratica: la compilazione delle Liste (per lo più opera di Mario Vellani Marchi), ossia locandine dedicate al festeggiato di turno, il quale diventava oggetto di gustose e piccanti caricature, caratterizzate da elementi che richiamavano la sua attività peculiare, oltre alle firme di tutti i partecipanti.
Molti dei frequentatori di Bagutta scoprono dalla metà degli anni Venti la trattoria Da Romano a Burano, divenendone assidui frequentatori, stabilendo una sorta di gemellarggio d’arte e di cultura tra le due realtà – milanese e veneziana – e determinandone la fortuna.

Bagutta

Nei pressi di San Babila ha sede il settimanale la Fiera Letteraria, e lì vicino, nella stretta via Bagutta al n. 4, si trova la Trattoria Toscana della famiglia Pèpori da Fucecchio, dalla cucina familiare ed accogliente.

 “Mangiare alla toscana, a Milano, volle dire per molti anni mangiare alla buona e senza spender molto, seduti davanti ad un tavolo di marmo senza tovaglia, col padrone che poi, sullo stesso marmo, faceva il conto a matita.

La cucina milanese perdeva, è vero, un pò della sua opulenza e della sua sontuosità: le piccole trattorie toscane non avevano biancherie di pregio e pesanti argenterie: ma i prezzi erano, più che ragionevoli, bonari.

Non c’erano camerieri in frack, ma tutt’al più, un ragazzo in giacchetta bianca. Si sapeva che l’olio e il vino erano sempre schietti.

I locali erano talmente piccoli che la padrona non stava chiusa fra misteriose inaccessibili pareti, ma cucinava “alla vista”: gli avventori vedevano con i loro occhi ciò che si metteva in padella”

La trattoria viene scoperta da due buongustai collaboratori del settimanale, lo scrittore bolognese Riccardo Bacchelli. ed il critico cinematografico fiorentino Adolfo Franci.

Poiché vi si mangia e beve bene, alla portata di giovani squattrinati, costoro iniziano a frequentarla coinvolgendo colleghi ed amici: tra i primi il letterato mantovano Marino Parenti, l’ingegnere milanese Massimo del Curto, il milanese Orio Vergani, il marchigiano Mario Alessandrini, il pittore cuneese Ottavio Steffenini ed il modenese Mario Vellani-Marchi.

Come si nota, in prevalenza giovani uomini provenienti da altre città, che sono convenuti nella metropoli in cerca di fortuna, ambiziosi e talentuosi, ma poco o per niente inseriti nella “Milano che conta”; al tempo l’unico di una certa notorietà è Bacchelli.

È quindi l’ambiente familiare che induce a rimanere: il ritrovare un’atmosfera modesta e intima, paesana si può dire, l’occasione del rapporto diretto tra persone, che la grande città non incoraggia, un ricordo delle proprie radici.

Ne nasce un sodalizio culturale informale ed eterogeneo: sono intellettuali con il gusto della convivialità, che si riuniscono quotidianamente iniziando a parlare animatamente e seriamente d’arte e di letteratura per finire in bevute e canti goliardici e alpini.

Dei movimenti ideologici, correnti ed impegni politici non pare esserci traccia nel gruppo di intellettuali che si ritrovano alla trattoria di via Bagutta, dove regna un clima di tolleranza verso ogni manifestazione artistica e di insofferenza per ogni costrizione ideologica, un luogo dove le tensioni della giornata si stemperano in allegra convivialità.

Francesco Arata è di casa alla trattoria toscana, come scrive nel suo Diario.

“Ieri a Bagutta Pèpori mi strinse tanto di mano salutandomi con cordialità e con auguri. Pèpori è un toscano di Fucecchio. Bravo uomo, produttore di vini e olii al suo paese e di figli qui in città. Alto, nero, largo di spalle e di viso. Due mani che se t’agguantano t’attanagliano.

Sempre in nero, anche le mani, perché le crespe sono vinate, proprio dell’oste che mesce sempre e lava bicchieri. Da buon trattore morde uno stuzzicadenti in perpetuo, anche di notte credo, nei salmi d’amore per la sua donna, mentre parla di cucina e d’intingoli.

La Pèpori è larga quanto una botte, braccia sempre nude che paion due salami e che appetiscono l’avventore di bocca buona. Un petto da cucina e da latte, una faccia tonda e piatta da matrona scassata.

I “peporini” e i “peporoni” sono i figli, che occhiettano come scoiattoli pronti alla tavola e al gioco. Di dentro allo sgabuzzino della cucina o della lavanderia lei “fa piazza”, con l’aiuto di due maschiette toscanine pure loro, sbracciate e sculate, pronte ai bisogni della cucina e agli sguardi dal finestrino.

I grandi servono, uno gli avventori dal palato sportivo, l’altro i poeti, gli artisti e le donnine, l’altro ancora le comitive extra. Non s’azzuffano mai, dicono sempre di sì e ti servono bene. Buoni in fondo e bravi figlioli.

Bagutta puzza di vino, di olio e di umido sudicio; è bassa, tante stanzette. La nostra, pardon quella dei “baguttiani”, è un patè di tanti quadretti e disegni; è scarabocchiata di pitture dall’in su all’in giù e dall’ingiù all’in su.

Sbrigliatura di gente per bene e di artisti a modo.”

È il famoso circolo di Bagutta, la partecipazione al quale rappresenta per Arata il punto massimo della sua introduzione mondana e artistica, benchè egli non vi partecipi a briglia sciolta, né venendo meno a quella sua caratteristica di appartata discrezione che solo dai meno benevoli dei suoi colleghi poteva essere scambiata per inesperiente primitività o per provincialismo.

Francesco Arata non fu tra i sette promotori, ma entrò nel gruppo quando questo si allargò a comprendere i nomi dei più noti militanti in arte e in letteratura della Milano d’allora, così come non furono soci, ma fedelissimi frequentatori, i vari Curzio Malaparte, Guido da Verona, Guelfo Civinini, Giovanni Comisso, Lucio D’Ambra, Pitigrilli (Dino Segre), Filippo Tommaso Marinetti, Leonida Rèpaci, Paolo Monelli.

Quando il numero degli artisti ufficiali si fu stabilito sul “trentasei”, Arata era da tempo nel cenacolo dei baguttiani (per anni era stato anche nel giro degli artisti della famosa trattoria del Boeucc, all’angolo di via Borgogna e via Durini).

Ancora dopo molti anni, nel libro del 2002 “soltanto un giornalista”, Indro Montanelli rievoca quel periodo fecondo: “quelli furono anche gli anni d’oro di Bagutta, ch’è stato un piccolo monumento non a una cultura o a una scuola artistica, ma a una civiltà.

Fu in gran parte grazie a quel ridotto dell’ultima scapigliatura lombarda (e, si capisce, al “Corriere”) che arrivato a Milano nel ’38 decisi di farne, nel mio piccolo, la mia patria elettiva.

Sentivo che, proprio come il Bagutta, Milano m’avrebbe adottato senza diffidenze e che, se avevo delle qualità, me le avrebbe riconosciute.

A differenza di altri cenacoli storici, come le Giubbe Rosse a Firenze e Aragno e Rosati a Roma, al Bagutta le miserie dell’invidia e le divisioni della politica restavano fuori dalla porta.

Ci si corbellava, ma bonariamente, e mai a spese degli assenti.

Per noi di casa c’era una saletta con un tavolo a ferro di cavallo, al cui centro c’era un posto che occupava soltanto Riccardo Bacchelli, tacitamente riconosciuto come genius loci non soltanto per la sua autorità di letterato, ma anche per la sua immane stazza fisica alimentata da diete petroniane a base di salumi e rognoni.

Come il Signore dagli apostoli, Bacchelli era affiancato dai baguttiani di più lungo corso: cito, a caso, Orio Vergani, Mario Vellani-Marchi, Anselmo Bucci, Giuseppe Novello, Alberto Tallone, Giovanni Mosca, Gian Filippo Usellini, Riccardo Manzi, Pio Semeghini, Bernardino Palazzi, Guido Piovene, Dino Buzzati, Gino Rocca, alcuni dei quali, come Fofo Franci e lo scultore Mazzolani, esentati dal pagare il conto perché perennemente in bolletta.

L’oste Pepori, mio compaesano di Fucecchio, arrivato a Milano come venditore di castagnaccio per le strade, sapeva cosa doveva a quel branco di squattrinati che dal suo iniziale buco (una cucina e due salette) aveva fatto la trattoria più famosa di Milano: ai tavolini intorno, infatti, erano ammessi anche gli altri clienti che venivano ad occuparli con un’ora d’anticipo sui pasti per godersi, come a uno zoo, le nostre conversazioni e scherzi e lazzi.

Nella scansìa dei libri premiati, ce n’è anche uno mio.”

In ordine di scorrimento:
Arata ritratto da Giuseppe Graziosi
Arata ritratto da Mario Vellani Marchi
Arata ritratto da Orio Vergani
Arata ritratto da Savino Labò
Un saluto dei Baguttiani all’oste Romano Barbaro – 29.04.1948

In ordine di scorrimento:
Bagutta – 1937
Un martedì di Bagutta
Un menù a Bagutta
“Il Cenacolo” di Bagutta – I fondatori

Burano: isola dei pittori

In ordine di scorrimento:
– Il Canal Grande – Acquerello 1920
– Pellestrina – Olio su tavola 1929
– Marina a Capo Noli – Olio su cartone 1929-1930 – XVII Biennale del 1930
– Lista di Mario Vellani Marchi per la vernice della nuova osteria
– Vellani Marchi a Burano – Olio su tela 1936
– Burano – Olio su tela 1939 – XXII Biennale del 1940
– Arata con Mario Vellani Marchi a Mazzorbo – 1939

In ordine di scorrimento:
– Mario Vellani Marchi e Bernardino Palazzi dipingono a Burano ritratti da Francesco Arata – Anni ’30
– Cà Moggioli a Burano. Da sinistra Duilio Torres Anna Moggioli Francesco Arata Mario Vellani Marchi e Virette Barbieri
– Collezione Romano Barbaro
– 50 anni di Bagutta-Burano
– I Pittori di Bagutta-Burano
– Pio Semeghini al lavoro – Burano, 1952

Il primo pittore a risiedere stabilmente a Burano in epoca precedente la Grande Guerra è Jehudo Epstein (1870-1945), ebreo bielorusso che si è formato a Vienna, paesaggista e ritrattista considerato tra i migliori della sua generazione, che spesso ospita presso di sé sull’isola artisti provenienti dalla Mitteleuropa.

Presto arriva il trentino Umberto Moggioli, che ha studiato all’Accademia di Venezia ed è stato chiamato nel 1907 ad aiutare il collega Pieretto Bianco a decorare alcuni ambienti del palazzo della Biennale, che infine prende casa a Burano.

A lui si aggregano il veneziano Gino Rossi, il trevigiano Arturo Martini (scultore) ed il mantovano Pio Semeghini, tutti reduci da varie esperienze in Francia, ed infine il triestino Luigi Scopinich: costoro costituiscono il nucleo della comunità artistica dell’isola, ed intorno ad essi gravitano amici e conoscenti.

Burano fu, agli inizi del secolo, per i veneti e per i milanesi, quello che era stata la Bretagna per i pittori francesi: Gino Rossi l’aveva appunto scoperta così, tornando dai suoi viaggi sulle orme di Gauguin, e aveva visto la piccola isola ridente nel chiaro estuario lagunare con gli stessi colori e gli stessi profili usati dalla scuola di Pont-Aven.

Dopo il soggiorno bretone Gauguin era salpato per gli sconfinati oceani della Polinesia, ma Gino Rossi non li aveva ritenuti necessari e sentì come anche a pochi passi da casa nostra non fosse impossibile trovare l’orma di una solitudine perfetta e un’innocenza ugualmente perfetta, prima a Burano e poi nelle colline Asolane.

A poca distanza da Venezia l’isola sembrava dimenticata come ciò che si confonde e si annulla sugli orizzonti svaporati della laguna. Ma dietro a quella negligenza c’era una lunga stria di arte e umanità.

Con Burano si scoprivano i buranelli, pescatori e gondolieri, e le buranelle, infaticabili ricamatrici, e gli orti e le osterie, e la pace di Torcello e i colori di Venezia, come fossero ancora allo stato naturale prima di essere raccolti nelle tele dei suoi grandi maestri o nelle facciate dei suoi palazzi.

La Burano di quei tempi è una piccola isola. Decisamente più popolata di oggi (settemila anime), fa vita a sé con la vicinissima Mazzorbo: pochissimi visitatori vengono da Venezia, la navigazione è splendida ma lunga e il vaporetto passa solamente due volte al giorno: la mattina per portare i pochi “foresti” e la sera a riprenderli!

L’inverno è duro: secondo la leggenda sarebbe stata la Bora, il gelido vento invernale, a dare il nome all’isola, e il “caigo” (la nebbia spessa che cala in banchi fittissimi) che avrebbe spinto le buranelle, racconta ancora la leggenda, a dipingere con colori sgargianti le loro case.

L’isola vive di pesca, di ortaggi e di un poco di cantieristica; per qualche tempo si è raccolto il sale. La gente è molto povera e le famiglie prolifiche … molte donne sull’isola sono merlettaie.

È il ritratto di una comunità povera e serena, isolata ed autarchica.

La pesca in laguna non è avventurosa, non è la lotta contro il mare: è invece un esercizio di pazienza, di conoscenza delle stagioni, delle maree e delle correnti, di come le acque dolci si mescolano alle salate, di lunga attesa al freddo invernale o al caldo torrido estivo.

A conoscerla la laguna è pescosa, ma poi i pesci devono essere portati celermente dove c’è mercato, magari lungo i fiumi e nell’entroterra, luoghi da raggiungere a forza di remi, con navigazioni che durano giorni, mentre le donne aspettano e ricamano.

Tutto questo rende i buranelli forti e resistenti e, nello stesso tempo, capaci di grande solidarietà perché temprati da una vita faticosa.

Cosa trovano i pittori in quest’isola è facile capirlo: la luce, la poesia, una natura incontaminata, un ambiente accogliente e stimolante, oltre che mangiare e dormire con pochi schèi; così Burano finisce per accogliere i pittori “rifiutati” dalla Biennale, gli artisti le cui opere non hanno passato la selezione.

Poi, con la Grande Guerra, tutti sono richiamati o partono volontari: la comunità artistica si scioglie.

Il pittore Moggioli muore di spagnola nel 1919, Scopinich si trasferisce a Milano e abbandona la pittura (diventando gallerista), Rossi dopo una dura prigionia in Germania imbocca la triste via della follia: solo Semeghini rimane dei primi frequentatori.

La moglie di Moggioli, Anna, che aveva amorevolmente accudito il primo gruppo di pittori, nel ricordo del marito apre generosa ai giovani artisti la propria abitazione, che presto gli isolani chiamano la casa dei pittori.

Sull’isola la piccola osteria con orto “da Romano” si occupa di sfamare questi artisti poveri e trasandati: vi si mangia “quello che c’è”, principalmente polenta, pesci e verdura della vicina isola di Mazzorbo; l’oste è un appassionato d’arte ed ha la mano leggera sui conti.

Attorno a questi due poli si raggruppano i pittori che trascorrono l’intera stagione estiva a dipingere la laguna, spesso raggiunti da amici e colleghi, o dagli appassionati visitatori della Biennale; non è una scuola ma una comunità di artisti, anche se per consuetudine viene ricordata come la scuola di Burano, e che negli anni Trenta vede una folta rappresentanza lombarda.

In un’epoca dove l’unico veicolo d’informazione a largo raggio è la stampa (la radio sta facendo i primi passi), i rapporti personali sono imprescindibili: i pittori lombardi si muovono alla ricerca di paesaggi e di stimoli per dipingere, dando vita a vere e proprie colonie: Burano certamente, ma anche le colline veronesi e asolane, le Dolomiti, la Riviera ligure, i laghi padani.

“Nel 1930 – racconta Mario Vellani-Marchi – ritornai a Burano e con me vennero da Milano i pittori Francesco Arata, Giuseppe Novello, Bernardino Palazzi: insomma un poco della “Bagutta” milanese che, come scrisse Ugo Nebbia su l’Italia letteraria, si era portata “armi e bagagli” in laguna.

Lì fraternizzammo con i pittori che venivano da Venezia e da ogni parte d’Italia: Orazio Pigato, Ferruccio Scattola, Fioravante Seibezzi, Juti Ravenna, Luigi Scarpa-Croce, Carlo dalla Zorza, Primo Potenza, Guido Tallone, Neno Mori, Renzo Zanutto, Mario Disertori, Giuseppe D’Anna, Leo Masinelli, Silvio Consadori, Moreno Zoppi, Guido Carrer, Mario Signori e molti altri”.

Che sono Felice Casorati, Umberto Lilloni, Filippo de Pisis, Felice Carena, Italico Brass, Virgilio Guidi solo per citare i più noti.

La prima volta che Francesco Arata dipinse Venezia fu probabilmente nel luglio 1920, data cui risalgono alcuni acquarelli; non si può escludere però che, come molti diplomati all’Accademia di Brera, abbia visitato le Biennali o i Musei in anni precedenti; nell’archivio di famiglia si conserva una copia del catalogo 1913 della Galleria d’Arte Moderna di Cà Pesaro.

Comunque da allora e fino allo scoppio della Seconda Guerra frequentò assiduamente la laguna ed i nuovi amici della scuola di Burano, oltre ad essere ammesso ad esporre alle Biennali del 1930, 1936 e 1940.

Viene considerato un frequentatore storico: nella lista di Vellani-Marchi del 3.06.1936 per l’inaugurazione della nuova osteria, sottoscritta da un nugolo di avventori, Arata è segnato tra “i veci” insieme a Ginevra Vivanti, Luigi Scarpa-Croce, Gabriella Oreffice, Ugo Nebbia, Bernardino Palazzi, Carlo dalla Zorza, Diego Valeri, Anna Moggioli, Anselmo Bucci, Juti Ravenna, Duilio Torres, Arturo Martini, Aldo Bergamini, Pio Semeghini, Virette Contu-Barbieri, Primo Villa, Valeria Bergetti, Giuseppe Novello.

Nel tempo l’oste Romano Barbaro, con fiuto e pazienza, costituisce una notevole collezione di opere degli artisti suoi ospiti, appese alle pareti della trattoria che si è ingrandita e si fregia del nome “tre stelle” per la qualità del cibo.

Intanto la notorietà dell’isola dei pittori si sparge tra tutti gli uomini di cultura: Burano diventa un rifugio dello spirito, come l’intese il giornalista Orio Vergani.

È il fascino della laguna: come dimenticare che lo scrittore americano Ernest Hemingway nel 1949-50 scrisse sull’isola di Torcello il romanzo di là dal fiume e tra gli alberi, che ricorda la sua esperienza sul fronte bellico italiano nel 1917-18?